Ultimo aggiornamento il 6 Aprile 2024 by Luisa Pizzardi
Il medico anestesista sardo Tomaso Cocco, primario del reparto di Terapia del dolore dell’ospedale Binaghi di Cagliari, ha recentemente condiviso le sue riflessioni sulla prigione attraverso un post su Facebook. Queste parole sono emerse dal suo personale vissuto, dopo essere stato detenuto e poi posto ai domiciliari nell’ambito dell’inchiesta “Monte Nuovo” della Dda di Cagliari. Partendo da questa esperienza, Cocco ha offerto uno sguardo unico sul significato profondo della prigione, andando oltre il semplice concetto di restrizione della libertà.
La Prigione come Pena Corporale
La prigione è anzitutto una pena corporale, esordisce Cocco nel suo post, contestando l’idea che la detenzione sia solamente un’incapacità di muoversi liberamente. Egli sostiene che il vero obiettivo della prigione sia quello di colpire la personalità stessa, utilizzando metodi che ricordano la tortura. In questo contesto, la privazione della libertà diventa solo un aspetto superficiale rispetto al vero impatto che ha sulla psiche e sul corpo del detenuto.
Spezzare la Personalità
Cocco prosegue affermando che la prigione è progettata per far dimenticare al detenuto di possedere un corpo. Questa negazione dell’essenza fisica porta ad un corpo reso muto, privato della sua espressione e dei suoi bisogni. In questo stato di ignoranza del proprio corpo, il detenuto si confronta con il dolore fisico come una reazione alla mancanza di consapevolezza della propria corporeità. Il dolore diventa quindi un segnale, un richiamo alla propria esistenza fisica in un contesto che cerca di cancellarla.
Il Corpo Come Espressione della Realtà
Per Cocco, il dolore fisico sperimentato in prigione diventa un ponte tra la mente e il mondo esterno, un’anfora di verità che ancore la coscienza alla realtà corporea. L’esperienza della prigione rivela nuove sfaccettature dell’essere umano, mostrando la sua vulnerabilità e la sua resilienza di fronte alla privazione della libertà e della dignità. Il corpo diventa così il custode di una verità più profonda, un segnale di vita e di umanità che persiste anche nei contesti più ostili.
Incatenati alla Realtà Corporale
Concludendo il suo post, Cocco evidenzia come la prigione, anziché annullare la corporeità, ne metta in luce la centralità e l’importanza. Il rifiuto di riconoscere il corpo porta al dolore come risposta, sottolineando la necessità di integrare la dimensione fisica e spirituale dell’essere umano. In un contesto di privazione e silenzio imposti, il corpo si rivela come la voce dei muti, un richiamo alla propria umanità e alla propria esistenza concreta.