Manovra al fotofinish: i governi ritardatari sotto la lente - avvisatore.it
Quando Carlo Fatuzzo, leader del partito dei Pensionati, si alza in piedi nella Camera dei Deputati e sventola il vessillo del suo movimento, mentre dai banchi dei Gruppi di Pd e FdI si alza il grido “voto, voto”, sembra che la manovra sia appesa a un filo e l’esercizio provvisorio sia imminente. Tuttavia, anche in quella occasione, nella notte tra il 29 e il 30 dicembre del 2018, il Parlamento riesce a ricomporsi e a scartare quello che ormai è il suo principale regalo di Natale: il via libera alla legge di Bilancio.
Quella volta si rischiò grosso. Per la cronaca, Fatuzzo, subito bloccato dai commessi, riesce a tirare fuori una seconda bandiera, lasciando di stucco l’allora presidente Roberto Fico, costretto a interrompere e a convocare una capigruppo. I tempi sono quelli del governo giallo-verde (Conte I), i resoconti parlano di una rissa sfiorata in aula, con una copia del testo della manovra che vola sul banco del governo per sfiorare l’allora sottosegretario Garavaglia. Ma non si tratta di caso isolato, visto che da diversi anni il via libera del Parlamento all’ex Finanziaria arriva ormai al fotofinish, a un passo dalla fine dell’anno. Gli esempi recenti sono diversi.
Persino il governo Monti, nato per approvare il ‘salva Italia’ e dotato di una robusta maggioranza bipartisan, non si sottrae alla tradizione del voto alla manovra natalizia. Nel 2011 l’ok arriva il 22 dicembre, con le tradizionali ‘bagarre’ parlamentari. Sono protagonisti i leghisti: “Non avete salvato l’Italia ma ne avete prolungato solo l’agonia“, dice il capogruppo al Senato Federico Bricolo che ‘merita’, insieme ai suoi colleghi del Carroccio, una censura ufficiale del presidente del Senato Renato Schifani.
La finanziaria del governo Letta passa in Parlamento in modo relativamente tranquillo, anche nei tempi: siamo al 20 dicembre 2013 per il sì al Senato seguito a stretto giro da quello alla Camera. Poi arriva Matteo Renzi e, maestro della comunicazione, ribalta tutta la prospettiva: “Abbiamo stoppato l’assalto alla diligenza!“, esulta quando gli si chiede di un via libera del Parlamento il 20 dicembre del 2014 in piena notte e in un clima infuocato.
Un abisso rispetto a quello che accade per l’ultima manovra firmata da Renzi-premier, che vanta un record al contrario sui tempi: ok già il 7 dicembre del 2016. Esame lampo (a palazzo Madama bastano poco più di 24 ore) e polemiche (quasi) zero. Dopo la sconfitta al referendum istituzionale, il Parlamento vota velocemente l’ultimo atto del premier dimissionario. Come promesso, Renzi lascia un attimo dopo la fiducia alla legge di Bilancio.
Nel 2017 il governo Gentiloni salva il cenone: il via ibera definitivo alla manovra arriva dal Senato il 23 dicembre, dopo l’ok della Camera. E’ l’anno dopo, con il Conte I, che la temperatura in aula sale con il Partito democratico che decide di ricorrere alla Consulta per conflitto di attribuzioni con il governo.
Negli ultimi anni il trend del via libera all’ultimo respiro, in piene vacanze di Natale, è una costante. Nel 2019 lo ‘stenografico’ di Montecitorio riporta l’approvazione alle 4.44 del 24 dicembre, davvero sotto Natale. L’anno dopo, nel 2020, per avere il voto finale bisogna aspettare al Senato il 30 dicembre, in zona Cesarini. E non è venuto meno alla tradizione nemmeno ‘super’ Mario Draghi, nonostante la maggioranza extra large: la sua legge di Bilancio è stata approvata alla Camera il 30 dicembre 2021.
L’anno scorso la prima manovra del governo Meloni ha avuto il via libera definitivo il 29 dicembre al Senato. Ma il passaggio precedente, l’approvazione della Camera, era arrivata il 24, con i trolley dei deputati pronti all’uscita di Montecitorio per non perdere il cenone.
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