"Le tre fazioni in conflitto nel Medio Oriente plasmano il futuro di Gaza nel 2025, evidenziando le complesse dinamiche geopolitiche della regione."
Un approfondimento sulle manovre strategiche di Arabia Saudita e Stati Uniti per il futuro della Striscia di Gaza emerge in un contesto di crescente tensione geopolitica. Le recenti dichiarazioni di Yusef Al Otaiba, ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, durante il World Government Summit di Dubai, offrono uno spaccato delle intenzioni di alcuni stati del Golfo, che hanno trovato un accordo a settembre riguardo a un piano per Gaza. Al Otaiba ha affermato che “al momento non vedo alternative”, suggerendo una direzione chiara per il futuro della regione.
Il piano delineato da Al Otaiba prevede una trasformazione radicale della Striscia di Gaza, concepita come un accesso diretto al Mediterraneo per l’Arabia Saudita. Questo progetto, tuttavia, non gode del consenso di Egitto, Qatar, Iran e Turchia, che si oppongono a tale sviluppo. Secondo le informazioni raccolte, i quattro clan storici della Striscia avrebbero dato il loro assenso a questa iniziativa, mentre gli Emirati Arabi Uniti si preparano a giocare un ruolo di primo piano nella ricostruzione della zona.
In questo contesto, gli Stati Uniti si sono dichiarati pronti a occuparsi della sicurezza e dello sviluppo costiero, includendo la costruzione di hotel e resort. Tuttavia, la proposta di Gaza come “promessa” ai sauditi risale a prima del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Fonti non ufficiali indicano che l’idea si sarebbe concretizzata il 14 aprile, giorno successivo all’attacco iraniano contro Israele, durante incontri tra alti funzionari di delegazioni d’affari a Tel Aviv, tra cui alcuni rappresentanti sauditi.
Un ulteriore elemento che avvalora questa strategia è il matrimonio avvenuto nel 2023 tra Rajwa al Saif, figlia dell’aristocrazia saudita, e il principe ereditario Hussein di Giordania. Questo matrimonio, paragonato a quelli storici degli Asburgo e dei Borbone, ha come obiettivo quello di garantire la sicurezza della Giordania sotto l’egida saudita. La Grand Strategy saudita mira a posizionarsi come leader nel Medio Oriente, riconoscendo al contempo un ruolo a Israele e un primato più modesto all’Iran riformato, creando così un “Medio Oriente a tre teste”.
La strategia di Trump si caratterizza per un approccio audace, puntando a ottenere risultati che inizialmente possono sembrare inaccettabili per le controparti. In questo contesto, gli Stati Uniti non prevedono di inviare soldati a Gaza, ma si propongono come facilitatori per l’alleato saudita, che non può affrontare direttamente la questione senza incorrere in accuse di non rispettare le esigenze palestinesi. La causa palestinese, infatti, è stata a lungo trascurata dai governi della regione, molti dei quali erano disposti a unirsi agli Accordi di Abramo e a normalizzare i rapporti con Israele. L’Iran, per contro, non poteva tollerare un simile sviluppo e ha quindi attivato Hamas il 7 ottobre.
Con la cessazione delle ostilità, l’Egitto ha aumentato significativamente il numero di carri armati schierati lungo la sua frontiera, superando di quattro volte il limite stabilito dal trattato di pace con Israele. Questa manovra non è indirizzata a un attacco, ma piuttosto a prevenire quella che le autorità egiziane definiscono una “potenziale invasione” palestinese. Nel frattempo, il re Abdallah di Giordania, presente alla Casa Bianca mentre Trump esprimeva le sue ambizioni per Gaza, si trova a fronteggiare una grave crisi economica e si è dichiarato pronto ad accogliere un numero significativo di rifugiati in cambio di aiuti. L’aspetto economico rimane cruciale: la Giordania non è l’unico paese in difficoltà, con Siria, Libano e Yemen che affrontano situazioni ancor più gravi. La stabilizzazione del Medio Oriente, quindi, sembra essere nelle mani degli stati del Golfo, i quali possiedono le risorse finanziarie necessarie per ridefinire gli equilibri politici e commerciali della regione.
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